Sentenze di lavoro

Furto lieve fa venire meno la fiducia, sì al licenziamento.

Il Tribunale di Milano si è espresso su di un licenziamento intimato per sottrazione ed appropriazione di beni aziendali, sancendo un principio che sembra affermarsi sempre più in giurisprudenza, vale a dire che in tali circostanze non conta il quanto, conta piuttosto la violazione della fiducia. Infatti il mancato rispetto di principi fondanti il rapporto di lavoro subordinato, nel caso di appropriazione di beni aziendali, seppur di modico valore, è stato considerato (e, come si diceva, lo è sempre di più) evidentemente grave da rendere impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro. Il fatto: un lavoratore, durante i rifornimenti di gasolio con l’autovettura aziendale, convinceva il distributore di carburante ad accreditargli un doppio punteggio e quindi caricava i punti fedeltà sulla propria carta carburante in misura doppia rispetto a quella normalmente spettante, raggiungendo, via via, il limite di punti per fruire del regalo personale di una confezione di pasta.

(Tribunale di Milano decreto 24 luglio 2022)

 

Minacce al datore di lavoro in chat, licenziato per giusta causa.

Il caso in esame ha riguardato un lavoratore dipendente che aveva inviato su un gruppo WhatsApp composto dai dipendenti della società, dei messaggi minacciosi e diffamatori nei confronti della datrice di lavoro. Inoltre si era presentato in azienda, in stato di alterazione, senza indossare il vestiario necessario per la sicurezza e l’igiene alimentare, creando agitazione tra i colleghi con un atteggiamento minaccioso, aggressivo e provocatorio.

Licenziato per giusta causa, il dipendente aveva ricorso ma in Cassazione i giudici hanno rigettato le sue controdeduzioni, ritenendo esistenti gli essenziali requisiti richiesti dalla elaborazione giurisprudenziale ai fini della specificità della contestazione (atteggiamenti minacciosi e provocatori nei confronti del datore di lavoro), confermando il recesso senza preavviso intimato al lavoratore.

(Corte di Cassazione, sentenza n. 11344/2023)

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