I LICENZIAMENTI NULLI, DISCRIMINATORI E RITORSIVI NELLE “TUTELE CRESCENTI” – di Eufranio Massi

 

Quando si parla dei licenziamenti dei lavoratori assunti con le c.d. tutele crescenti”, il pensiero corre, principalmente, alle tutele di natura risarcitoria previste dall’art. 3 del D.L.vo n. 23/2015, per i recessi illegittimi dovuti a giusta causa, giustificato motivo soggettivo od oggettivo: su questa è intervenuta, come noto, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 194 depositata l’8 novembre 2018 che ha ritenuto incostituzionale il comma 1 nella misura in cui non consente al giudice, con motivazione, di integrare il requisito, seppur importante, della anzianità aziendale con quelli enucleati dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti dell’impresa, contesto socio economico, comportamento tenuto dalle parti, ecc.). Ora, dopo le modifiche introdotte dal D.L. n. 87/2018, l’indennità risarcitoria, riferita alle imprese dimensionate oltre i 15 dipendenti, parte da un minimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del TFR fino ad un massimo di 36, mentre per quelle più piccole il limite massimo continua ad essere rappresentato dalle 6 mensilità, partendo da una base di 3.
L’argomento di questa riflessione, però, è rappresentato dalla previsione contenuta nell’art. 2 che si occupa delle conseguenze relative ai licenziamenti nulli, discriminatori, ritorsivi ed inefficaci.
Il punto di partenza, comune alle tutele ex art. 18 della legge n. 300/1970, è rappresentato dall’art. 3 della legge n. 108/1990 ove si afferma che “il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’art. 4 della legge n. 604/1966 e dell’art. 15 della legge n. 300/1970 è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’art. 18 della legge n. 300/1970. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti”.
Come si può facilmente arguire dalla lettura dell’art. 2 del D.L.vo n., 23/2015 poco è cambiato rispetto alla precedente normativa: in presenza di un licenziamento nullo perché discriminatorio con puntuale riferimento all’art. 15 della legge n. 300/1970, o riconducibile a casi di nullità previsti espressamente dalla legge (ad esempio, donna nel periodo “protetto” della maternità o dell’anno dal matrimonio – ma non per l’uomo, come affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 28926 del 12 novembre 2018 -, o in caso di ritorsione, o motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c.) o inefficace perché formulato oralmente, il giudice ordina al datore di lavoro, anche non imprenditore (a prescindere dal numero dei dipendenti in forza), la reintegrazione nel posto di lavoro. Si parla, in via generale, anche della discriminazione che ricomprende ipotesi afferenti al sesso, all’età, alla religione, alla lingua, alle condizioni fisiche ed agli orientamenti politici e sindacali o di inefficacia in presenza di un licenziamento individuale o collettivo adottato oralmente.
In presenza di un recesso che il lavoratore ritiene ritorsivo, la motivazione va dimostrata dallo stesso ed, al contempo, il datore di lavoro deve, invece, produrre prove in giudizio che è vera la propria motivazione addotta a giustificazione del licenziamento (ad esempio, la giusta causa). Sul punto la Cassazione, con la sentenza n. 23583 del 23 settembre 2019, è stata chiara: la nullità per motivo illecito ex art. 1345 c.c., richiede che questo abbia carattere determinante e che il motivo addotto a sostegno della risoluzione del rapporto sia solo formale ed apparente. Del resto già la stessa Corte, con una decisione di pochi mesi prima, la n. 9468 del 4 aprile 2019, aveva affermato che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore richiede l’accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento.
Ma, quando è che possiamo parlare di licenziamento discriminatorio al di là delle fattispecie evidenti che si evincono dalla lettura dell’art. 15 della legge n. 300/1970?
Le ragioni discriminatorie debbono avere una rilevanza oggettiva e possono essere dimostrate attraverso dati che si rifanno a sistemi retributivi, a mansioni e qualifiche o a progressioni di carriera, nonché al licenziamento finale che, presi nel loro complesso, determinano indizi probatori precisi e concordanti.
Ma, oltre alla reintegra, che si può definire piena, cosa spetta al lavoratore?
Il giudice dispone un risarcimento del danno non inferiore alle 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto che comprende il periodo compreso tra la data del licenziamento ed il giorno della effettiva reintegra, dedotto soltanto l’eventuale “aliunde perceptum” per altra attività, nel frattempo, svolta, con il pagamento per il medesimo periodo dei contributi previdenziali.
Una breve considerazione va effettuata sulla la deduzione di quanto si è percepito attraverso un’altra occupazione, nel periodo di estromissione dal lavoro: il Legislatore delegato riprende quanto già affermato nella legge n. 92/2012 la quale, a sua volta, aveva fatto propri costanti orientamenti giurisprudenziali. In ogni caso, ricorda la Cassazione con l’ordinanza n. 25355 del 9 ottobre 2019 che “il datore che invochi l’aliunde perceptum da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare specifiche circostanze di fatto, ai fini dell’assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, ed è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rilevandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative”.
A favore del lavoratore la disposizione prevede il c.d. “opting out”, ossia la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione, una indennità pari a 15 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto: la richiesta determina la risoluzione del rapporto e la somma non viene assoggettata ad alcun contributo previdenziale. Dal giorno della richiesta, economica, sostitutiva della reintegra, non matura più l’indennità risarcitoria. La richiesta va presentata entro il termine perentorio di 30 giorni dal deposito della pronuncia giudiziale o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione del deposito. La perentorietà del termine sta a significare che, se l’”opting out” non viene esercitato entro il periodo considerato dalla legge, esso decade.
Ma cosa si intende per ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, concetto puntualmente più tecnico di ultima retribuzione globale di fatto?
Qui, l’ovvia correlazione è rappresentata da ciò che afferma l’art. 2120 c.c. il quale stabilisce che nella retribuzione da accantonare annualmente vanno computate tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, comprese quelle in natura ed escluse quelle che trovano la loro ragione nel rimborso spese. Il Ministero del Lavoro, con l’interpello n. 43 del 3 ottobre 2008, ha precisato che se il CCNL prevede espressamente quali elementi della retribuzione vanno calcolati e quali no, il datore è tenuto a rispettarlo.
Quindi, retribuzione mensile oltre al rateo delle mensilità aggiuntive ed ai c.d. “elementi non occasionali”.
Una breve riflessione va riservata agli elementi non occasionali della retribuzione utili ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto: vanno computati quelli collegati al rapporto lavorativo o connessi alla particolare organizzazione (Cass., 19 febbraio 2009; Cass., 3 novembre 2008, n. 11002) o in dipendenza con le mansioni stabilmente svolte (Cass., 14 giugno 2005, n. 24875). Da ciò discende che ai fini del calcolo è sufficiente che il lavoratore ne abbia goduto in via normale, pur non essendo lo stesso definitivo. Vanno esclusi soltanto gli elementi sporadici ed occasionali, collegati a situazioni aziendali fortuite ed imprevedibili. Per i beni in natura (ad esempio, l’alloggio) occorre fare riferimento al valore normale del bene e non all’eventuale valore convenzionale fissato ai fini fiscali o contributivi.
A mero titolo esemplificativo e non esaustivo, riporto alcune voci relative alla computabilità:

a) lavoro straordinario: ci rientra se prestato con frequenza in relazione alla particolare organizzazione del lavoro o, anche, allorquando viene forfetizzato;
b) indennità per lavoro notturno, festivo o a turni: ci rientra se essa è espressione della normale programmazione aziendale;
c) alloggio: ci rientra se c’è una effettiva connessione tra l’attribuzione e la posizione lavorativa (Cass., 12 aprile 1995, n. 4197);
d) premi di fedeltà: ci rientrano se la liberalità originaria si è trasformata in un vincolo obbligatorio (Cass., 29 febbraio 2008, n. 5427);
e) indennità di trasferta: ci rientra se costituisce una stabile componente della retribuzione (Cass., 24 febbraio 1993, n. 2255);
f) indennità per i trasfertisti: ci rientra se il disagio derivante dall’attività fuori sede viene retribuito in modo strutturale come voce della retribuzione ordinaria (Cass., 20 dicembre 2005, n. 28162);
g) indennità per lavoratori impegnati all’estero: ci rientrano in quanto viene compensata la maggiore gravosità ed il disagio ambientale (Cass., 19 febbraio 2004, n. 3278);
h) indennità di cassa se corrisposta in maniera continuativa (Cass., 7 giugno 1968 n. 1739);
i) indennità di cuffia (Cass., 10 maggio 1980, n. 3089);
l) indennità sostitutiva del preavviso pur non essendo il corrispettivo di una prestazione di lavoro (Cass., 22 febbraio 1993, n. 2114).

L’indennità risarcitoria alternativa alla reintegra, introdotta dall’art. 1 della legge n. 108/1990, fu oggetto di esame da parte della Corte Costituzionale la quale affermò che la disposizione non è assolutamente censurabile sia sotto il profilo della razionalità della scelta legislativa di concedere al lavoratore ingiustamente licenziato il diritto potestativo di scegliere l’indennità sostitutiva, anche prima che il datore possa ricorrere in appello, che in relazione alla ipotetica sproporzione tra danno subito e la somma che il datore deve corrispondere. L’effetto estintivo del rapporto avviene con il pagamento della indennità, con la conseguenza che fino al momento della esecuzione della prestazione monetaria richiesta, rimangono sia l’obbligo retributivo che il diritto del lavoratore a far valere come titolo esecutivo la sentenza con la quale è stato disposto il pagamento, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni dalla data del recesso a quella della effettiva reintegra.
Ma cosa succede se un datore di lavoro non ottempera all’ordine di reintegra?
Oltre al pagamento delle retribuzioni il lavoratore può chiedere un risarcimento del danno, attivabile con una azione giudiziaria diversa, in quanto si ritiene leso nella propria professionalità. Non è possibile, invece, alcuna forma di esecuzione specifica, atteso che la Cassazione, con sentenza n. 9965 del 18 giugno 2012 ha affermato che “l’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato non è suscettibile di esecuzione specifica, in quanto l’esecuzione in forma specifica è possibile per le obbligazioni di fare di natura fungibile, mentre la reintegrazione nel posto di lavoro comporta non soltanto la riammissione del lavoratore nell’azienda (e cioè un comportamento riconducibile ad un semplice “pati”) ma anche un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo – funzionale, consistente, fra l’altro, nell’impartire al dipendente le opportune direttive, nell’ambito di una reciproca ed infungibile collaborazione, secondo gli orientamenti già espressi dalla Suprema Corte nelle sentenze n. 9125/1990 e n. 112/1988”.
La disciplina reintegratoria totale trova applicazione anche nelle ipotesi in cui, in giudizio, venga accertato il difetto di giustificazione per motivo consistente nella inidoneità fisica o psichica del lavoratore anche ai sensi delle previsioni contenute nella legge n. 68/1999 agli articoli 4, comma 4 e 10, comma 3.
Con la congiunzione “anche” Il Legislatore ricomprende, a mio avviso, sia l’ipotesi prevista dall’art. 42 del D.L.vo n. 81/2008 (inidoneità alla mansione specifica), che l’inidoneità alla prestazione di lavoro notturno, cosa che comporta, ai sensi del D.L.vo n. 66/2003, lo spostamento, ove possibile, ad altre mansioni, al termine di una procedura che vede coinvolto, nel primo caso anche il medico competente e, nel secondo, le organizzazioni sindacali interne, se presenti.
Per quel che riguarda, invece, le casistiche che fanno riferimento alla legge n. 68/1999 ricordo che l’art. 4, comma 4, sin riferisce ai dipendenti divenuti inabili con una riduzione della capacità lavorativa superiore al 60% i quali, nel caso di destinazione a mansioni inferiori hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza: il recesso appare possibile soltanto se non vi sia la possibilità di assegnazione a mansioni equivalenti od inferiori.
L’art. 10, comma 3, concerne il caso dell’aggravamento dello stato di salute o di significative variazioni alla organizzazione del lavoro intervenute. La disposizione prevede accertamenti sanitari da parte degli organi competenti cosa che non comporta, in alcun modo, la risoluzione del rapporto che, invece, può intervenire soltanto allorquando venga accertato che anche attuando specifici adattamenti nell’organizzazione del lavoro, non è possibile una occupazione proficua.

Come si vede la disciplina è del tutto analoga a quella prevista dai commi da 1 a 3 dell’art. 18 della legge n. 300/19700 (fatto salvo il riferimento alla retribuzione utile per il calcolo del TFR, mentre per i lavoratori assunti entro il 6 marzo 2015 l’indennità va parametrata all’ultima retribuzione globale di fatto).

 

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