IL LAVORO STAGIONALE NEL COMMERCIO E NEI PUBBLICI ESERCIZI (di Eufranio Massi)

Un sospiro di sollievo è giunto dai settori del commercio e dei pubblici esercizi che applicano il contratto collettivo stipulato l’8 febbraio 2018 da FIPE, ANGEM, LEGACOOP, CONFCOOPERATIVE LAVORO, AGCI e dalle organizzazioni di categoria Filcams CGIL, Fisascat CISL e Uiltucs UIL: il giorno 7 febbraio 2019, per superare le difficoltà legate alle causali legali introdotte con il D.L. n. 87/2018, è stata sottoscritta una Dichiarazione congiunta che, richiamando le causali contrattuali inserite nell’art. 90, le ritiene coerenti con la caratteristica della stagionalità ove, è opportuno ricordarlo, non sono richieste le condizioni richiamate, espressamente, dall’art. 19 del D.L.vo n. 81/2015, modificato dal c.d. “Decreto Dignità”.

La dichiarazione, abbastanza stringata nei contenuti, si limita a ricordare che:

a) nel settore sussiste una diretta correlazione tra l’andamento occupazionale e l’intensificazione correlata al flusso della clientela e che tali intensificazioni sono da ricondursi alla stagionalità la quale va riferita non soltanto alle aziende che osservano nel corso dell’anno uno o più periodi di chiusura al pubblico (è evidente il richiamo al D.L.vo n. 1525/1963), ma anche alle imprese che presentano una apertura annuale;

b) le parti intendono valorizzare e conservare nel settore le professionalità esistenti e quelle in via di costituzione (nella frase appare evidente una “critica” sottintesa al D.L. n. 87/2018, laddove in presenza di un rinnovo si richiede l’introduzione di una causale);

c) le parti prendono atto delle modifiche normative intervenute.

Alla luce di tali considerazioni le parti firmatarie del CCNL concordano che quanto definito dall’art. 90 del CCNL soddisfa i requisiti legali richiesti dalla nuova normativa ai fini dell’applicazione delle specifiche normative e si lasciano “aperta” la porta per ulteriori disposizioni in materia di stagionalità.
Fin qui la dichiarazione congiunta.
Andiamo, ora, a verificare ciò che afferma l’art. 90, atteso che i periodi ivi riportati sono da considerarsi, a tutti gli effetti, come stagionali (e tali sono le relative attività) e, di conseguenza, i rapporti a termine instaurati o prorogati rientrano, ora, nella ipotesi prevista dal comma 01 dell’art. 21:

a) periodi connessi a festività religiose e civili, nazionali ed estere (qui il pensiero va, senz’altro, ai periodi natalizi e pasquali ma anche a quelli legati, ad esempio, alle festività, ora soppresse in Italia, ma presenti nel Nord Europa come il “corpus Domini” e la “Pentecoste” che comportano un flusso turistico aggiuntivo in molte località del nostro Paese causato da cittadini provenienti da quelle Nazioni);

b) periodi connessi allo svolgimento di manifestazioni (il riferimento appare evidente a fiere, sagre, ecc.);

c) periodi connessi ad iniziative promozionali e/o commerciali (con tale dizione vengono “salvate”, ad esempio, le assunzioni a termine durante il periodo dei saldi che, in questo caso, non soggiacciono alla imposizione della causale);

d) periodi di intensificazione stagionale e/o ciclica delle attività in seno ad aziende ad apertura annuale: tale dizione consente di adeguare l’occupazione a termine ai flussi della clientela che comportano una intensificazione dell’attività. Ci si è chiesti se, con tale dizione, nelle c.d. “città d’arte” potrebbe passare anche il “concetto” di una stagionalità per “tutto l’anno”. La mia risposta è che tale dizione può comprendere un periodo abbastanza lungo ma non può coprire i dodici mesi, in quanto manca il raffronto con un periodo, rispetto al quale, calcolare la intensificazione (se la stagionalità è per tutto l’anno, quale è il parametro di riferimento?).

L’art. 90 del CCNL va posto in diretta correlazione con il successivo art. 92: l’impresa che ricorra ai contratti a tempo determinato deve comunicare, con cadenza quadrimestrale, alle RSU o alla RSA o, in caso di mancanza, alle organizzazioni territoriali sindacali firmatarie dell’accordo, numero, ragioni, durata e qualifica dei lavoratori interessati. Tale comunicazione può essere effettuata anche per il tramite della associazione di categoria e, al fine di evitare aggravi burocratici soprattutto alle piccole e medie imprese, l’Ente bilaterale territoriale può attivare un servizio di domiciliazione presso la propria sede di tutte le comunicazioni, predisponendo una apposita modulistica.
La norma contrattuale, scaturente dalla dichiarazione congiunta, risolve molti problemi nel settore: nella breve disamina che segue cercherò di evidenziare le particolarità del contratto stagionale rispetto al “normale” contratto a tempo determinato.
Ci si trova di fronte, nella sostanza, a due strade parallele destinate a non incontrarsi mai.
Infatti, dopo la sottoscrizione del contratto (elemento comune ad entrambe le tipologie ove va riportato il richiamo al diritto di precedenza previsto dall’art. 24, comma 4) ognuna segue la sua strada.
Per i contratti a termine stagionali non sussistono:

a) un limite massimo fissato a 24 mesi, anche in sommatoria (o limite diverso previsto dalla contrattazione collettiva): da ciò discende che, in via generale, i rapporti possono essere instaurati per un numero indefinito di volte;

b) un tetto massimo di rinnovi: anche in questo caso la differenza con il contratto a tempo determinato “normale” appare evidente in quanto in questi ultimi esiste, sia pure indirettamente, il tetto, in quanto correlato alla durata massima ipotizzata dalla legge o dalla contrattazione collettiva, cosa che, appunto, non viene in evidenza per la stagionalità;

c) le causali specifiche previste dal Legislatore all’art. 19 riferite ad esigenze oggettive estranee all’attività ordinaria, ad esigenze temporanee, significative e non programmabili o a ragioni di sostituzione di lavoratori aventi diritto alla conservazione del posto, non riguardano i contratti stagionali, nel senso che è la stessa norma a sancire la “non obbligatorietà” della loro apposizione sia nei rinnovi che nelle proroghe;

d) il limite quantitativo (art. 23) legale del 20% o quello, diverso, previsto dalla contrattazione collettiva non trova applicazione nei contratti “stagionali”;
e) lo “stop and go” tra un contratto a tempo determinato e l’altro pari a dieci o venti giorni di calendario tra due contratti a termine (a seconda che il rapporto abbia avuto una durata fino a sei mesi o superiore) non esiste nei contratti stagionali, nel senso che l’uno può essere “agganciato” all’altro senza soluzione di continuità;

f) il diritto di precedenza, esercitato per iscritto entro sei mesi, che offre la possibilità di una assunzione a tempo indeterminato per le mansioni già svolte nei dodici mesi successivi alla cessazione del rapporto qualora, anche in presenza di più contratti a termine, si sia superata la soglia dei sei mesi (con un calcolo più favorevole per le donne “in periodo protetto”, che tiene conto del periodo di astensione obbligatoria) non sussiste nei contratti stagionali. Qui, il diritto di precedenza, va ugualmente esercitato per iscritto entro i tre mesi successivi (o termine diverso previsto dalla contrattazione collettiva) alla cessazione del rapporto, ed esplica i propri effetti su un ulteriore contratto stagionale.

Restano, tuttavia, alcune questioni da chiarire che, per certi versi, non hanno, finora, avuto un riscontro nei chiarimenti amministrativi e nelle decisioni giurisprudenziali.

Mi riferisco, innanzitutto, al numero delle proroghe.
Con una scrittura, decisamente infelice (spiegherò tra un attimo il perché) il Legislatore parla di un numero massimo di quattro proroghe in ventiquattro mesi (art. 21, comma 1), affermando che il contratto si trasforma a tempo indeterminato a partire dalla data di decorrenza della quinta proroga. La disposizione ben si attaglia al “normale” contratto a termine ove sussiste un limite massimo di utilizzazione, ma non ha, a mio avviso, senso nel contratto stagionale ove un tetto temporale non si riscontra, ove la contrattazione collettiva ha, sempre, fatto riferimento ai rapporti stagionali, magari mettendo un tetto massimo di durata (v. accordo del trasporto aereo o quello inserito nel CCNL alimentari), e, soprattutto, ove sussiste la possibilità (con oneri di natura burocratica legati alle comunicazioni di cessazione ed inizio della nuova attività di natura telematica ai servizi per l’impiego) di “legare” un contratto stagionale all’altro senza soluzione di continuità. La violazione del limite delle quattro proroghe riferito ai contratti stagionali, con la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, appare “un non senso” se riferito alla “natura” di tale tipologia contrattuale. A mio avviso, una interpretazione “sistemica” spinge per riferire le quattro proroghe al singolo contratto stagionale: così facendo si eviterebbe un “appesantimento burocratico” al datore di lavoro che, peraltro, può raggiungere lo stesso risultato, stipulando più contratti stagionali non essendoci lo “stop and go”.

Altra questione di facile soluzione riguarda la possibilità che un lavoratore stagionale possa essere assunto dallo stesso datore di lavoro anche con un “normale” contratto a tempo determinato. La cosa è possibile, ma il datore dovrà tenere “una doppia contabilità”, nel senso che per quest’ultimo trovano, “in toto”, applicazione le disposizioni in materia previste dall’art. 19 con l’indicazione della causale specifica che va apposta, a mio avviso, anche nel caso in cui sia il primo contratto a termine “normale” ad essere instaurato, in quanto il lavoratore ha già prestato la propria attività come “stagionale” e, quindi, ci si trova di fronte ad un rinnovo contrattuale tra le parti. Strettamente correlata a tale questione, è quella relativa alla obbligatorietà o meno del rispetto dello “stop and go”. Ovviamente, nulla di specifico ha detto il Ministero del Lavoro e, so perfettamente, che sull’argomento sussistono interpretazioni discordanti: a mio avviso, nel caso di specie sopra evidenziato, appare prudente rispettare “lo stacco”, atteso che si tratta pur sempre di due contratti a tempo determinato, sia pure originati da motivazioni diverse.

Le imprese che ricorrono ai contratti stagionali individuati dalla contrattazione collettiva come, ad esempio, quelli che scaturiscono dalla Dichiarazione congiunta del 7 febbraio 2018 relativa ai settori del commercio e dei pubblici esercizi, sono tenute a pagare, ad ogni rinnovo, il contributo addizionale dello 0,50%, definito progressivo dalla circolare n. 17/2018 del Ministero del Lavoro: tale onere, è opportuno rimarcarlo, non sussiste per i contratti relativi alle attività stagionali previste dal D.P.R. n. 1525/1963. Sarà una circolare dell’INPS, non ancora emanata, a stabilire i codici di imputazione e le modalità di versamento. Appare evidente, se la disposizione rimarrà questa (ossia agganciata alla progressività) che, con il crescere dei rinnovi, il costo contributivo diverrà sempre più pesante.

Da ultimo una breve considerazione: cosa succede se un lavoratore, ricorrendo in giudizio, dovesse sostenere che il suo contratto a termine non ha una “motivazione stagionale” ma è riconducibile al “normale” contratto a tempo determinato?
In applicazione dell’art. 28, comma 1, del D.L.vo n. 81/2015 il giudice che dovesse accedere alle richieste del ricorrente, convertirà il rapporto di lavoro in contratto a tempo indeterminato a partire dal giorno della pronuncia e condannerà il datore di lavoro al pagamento di una indennità onnicomprensiva per il periodo decorrente dalla data del licenziamento a quella della decisione, compresa tra 2,5 e 12 mensilità calcolate avendo quale parametro di riferimento l’ultima retribuzione utile ai fini del TFR.

 

  

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