Il diritto di critica trova la sua origine (e tutela) nell’articolo 21 della nostra Costituzione, il quale sancisce il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Essendo un diritto ampiamente riconosciuto nella Ue, lo si ritrova anche nell’articolo 10 della CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). In Italia è stata più volte chiamata in causa la Cassazione per tentare di definire se e quali limiti possa avere questo fondamentale diritto. Un riferimento particolare al mondo del giornalismo è d’obbligo.
In ambito lavoristico, il diritto di critica trova ulteriore e specifica tutela nell’articolo 1 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/1970) il quale sancisce che i lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione. Si evince che il diritto di critica non è assoluto, bensì condizionato al rispetto “dei principi della Costituzione”. Nell’ambito del rapporto di lavoro, il suo limite è evidentemente il diritto di iniziativa economica privata che si ritrova nell’articolo 41 della Costituzione.
Il lavoratore, dunque, è titolare di un diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, sia all’interno che all’esterno dell’azienda; diritto che però deve essere esercitato in modo tale da non tradursi in una condotta lesiva del decoro dell’impresa e suscettibile di provocarle un danno economico in termini di perdite di commesse e di occasioni di lavoro (Cass. 1749/2000). Parimenti lesivi del vincolo fiduciario appaiono quei comportamenti che pregiudicano sul piano morale l’immagine del datore di lavoro con riferimento a fatti insussistenti o comunque non comprovati (Cass. 11220/2004).
Il lavoratore deve, in altri termini, astenersi dal formulare accuse avventate, soppesando l’effettiva consistenza degli elementi in proprio possesso prima di dare pubblica risonanza a presunte o reali responsabilità che valgono a screditare l’immagine del datore di lavoro e sono suscettibili di provocargli un danno economico (Cass. 11220/2004).
Le critiche tramite social network
La questione dell’individuazione dei limiti al diritto di critica ha assunto con l’avvento dei social network nuovi e ancor più complessi profili, per la maggiore diffusione e condivisione che tali mezzi consentono. I social network quali Facebook, Instagram e Twitter, come noto possono raggiungere un numero alto e potenzialmente indeterminato di persone.
Se con un paio di sentenze di Cassazione era stato precisato che la pubblicazione di post coinvolgenti il datore di lavoro può portare al legittimo esercizio del potere disciplinare (Cass. 10280/2018 e Cass. pen. 40083/2018), è doveroso segnalare anche due Cassazioni che avevano stabilito che non è licenziabile il lavoratore che posta su Twitter contenuti denigratori pubblicati da altre testate (Cass. 2679/2019) e che le chat di un gruppo Facebook, composte da una pluralità di soggetti recanti parole offensive e/o denigratorie nei confronti del datore di lavoro, non integrano una fattispecie di diffamazione, quindi non potrebbero portare al licenziamento (Cass. 21965/2018).
L’argomento è stato e tuttora è piuttosto dibattuto. Considerando che la tecnologia informatica è in continua (e forse irrefrenabile?) evoluzione, si ritiene opportuno citare alcune sentenze più recenti, per capire che aria tira – in questo periodo storico – nelle aule dei nostri tribunali quando i giudici sono chiamati a sentenziare sul diritto di critica sui social, strumenti ormai facenti parte del nostro quotidiano.
Si riportano quindi in sintesi le decisioni scaturite da due sentenze, una del 2021 e una del 2023:
- Cassazione, sentenza 25731/2021: l’azienda non può utilizzare, ai fini del licenziamento, la conversazione privata di una dipendente che, nella chat aziendale, sparla di un superiore e di alcune colleghe, se non è stato comunicato prima ai dipendenti la possibilità di fare verifiche tecniche sui pc. Lo sfogo della dipendente, dunque, destinato a un solo interlocutore, nel caso in esame è stato ritenuto rientrare nella libera manifestazione del pensiero.
- Cassazione, sentenza n. 11344/2023: è legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente a seguito di atteggiamenti minacciosi e provocatori nei confronti del datore di lavoro. Gli ermellini hanno rigettato il ricorso del lavoratore, licenziato per giusta causa dopo aver inviato su un gruppo whatsapp, composto dai dipendenti della società, messaggi minacciosi e diffamatori nei confronti della datrice di lavoro ed essersi presentato in azienda creando agitazione tra i colleghi con un atteggiamento minaccioso, aggressivo e provocatorio.
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