Il contratto a tempo determinato o contratto a termine, come noto, è un contratto subordinato nel quale è prevista una durata già stabilita mediante l’apposizione di un termine finale.
Si caratterizza, quindi, per la preventiva determinazione della sua durata e la conseguente estinzione automatica allo scadere del termine inizialmente fissato, salvo ipotesi di proroghe.
Breve excursus normativo
È possibile rinvenire una prima regolamentazione del contratto a termine nell’articolo 2097 del codice civile, secondo il quale <<Il contratto di lavoro si deve reputare a tempo indeterminato se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto>>.
Il legislatore spesse volte è intervenuto a modificare la disciplina del contratto a termine con diversi atti successivi (si citano ad esempio le leggi n. 230/1962 e n.368/2001).
La c.d. riforma Fornero (L. 92/2012) aveva da un lato favorito una maggiore flessibilità del contratto a termine facilitandone la stipulazione e dall’altro ha disincentivato l’uso di tale forma contrattuale in favore del contratto a tempo indeterminato, definito come ‘’contratto dominante’’. L’obiettivo era quello di scoraggiare il prolungato utilizzo del lavoro a termine rendendolo più oneroso per il datore di lavoro tramite un contributo previdenziale aggiuntivo destinato a finanziare la disoccupazione (tale contributo è tuttora in vigore).
Il Decreto Legislativo n. 81/2015 (cd. Jobs Act) ha liberalizzato il contratto a tempo determinato, disponendone la durata massima di 36 mesi senza l’individuazione di ipotesi tassative per l’apposizione del termine. Superati i 36 mesi di durata massima del contratto era prevista la trasformazione a tempo indeterminato a decorrere dalla data di superamento.
Gli interventi del Decreto Dignità
Il Decreto Dignità – tuttora in vigore seppur con modifiche intervenute di recente e che sono trattate in seguito – aveva previsto importanti novità in materia di contratto a termine, soprattutto con riferimento ai limiti di durata, ai presupposti e ai limiti per proroghe/rinnovi, all’incremento del contributo addizionale e alla nuova percentuale di lavoratori a termine da assumere presso le aziende.
Nello specifico, la durata del contratto, con il Decreto Dignità, è passata da 36 a 12 mesi, con la previsione di un massimo di 4 proroghe. Nei primi 12 mesi il contratto si considera acausale, non necessita quindi dell’apposizione della motivazione giustificatrice da parte del datore di lavoro. Viene introdotta la possibilità di apporre un termine superiore, entro il limite massimo di 24 mesi, solo in presenza di una delle causali legali (causali che, al netto di quella “sostitutiva”, sono di difficilissima applicazione).
Le principali novità introdotte dal Decreto Lavoro
In ultima battuta, il recente “Decreto Lavoro” (D.L. n. 48/2023) è nuovamente intervenuto in materia di contratti a termine, riformando principalmente la parte relativa alle causali.
In sintesi:
- È possibile apporre ai contratti a termine una durata superiore ai 12 mesi, sempre nel rispetto dei 24 mesi complessivi, solamente in presenza di una delle seguenti condizioni: nei casi previsti dai contratti collettivi e, in assenza di previsioni dei contratti collettivi (e comunque entro il 30 giugno 2024), per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti; resta inoltre legittima l’apposizione del termine per esigenze di natura sostitutiva.
- Per i contratti a tempo determinato di durata inferiore ai dodici mesi il regime della c.d. acausalità resta valido anche in caso di rinnovi.
- Azzeramento del contatore dei 12 mesi acausale per i contratti stipulati oltre la data del 05/05/2023 (data di entrata in vigore del decreto lavoro). Tale disposizione sembrerebbe “allungare” i periodi acasuali dei contratti a termine – sempre nel rispetto del limite massimo di 24 mesi totali del rapporto – ma per la sua corretta applicazione sarebbero auspicabili ulteriori chiarimenti da parte degli organi competenti.
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