L’articolo 41 della nostra Costituzione sancisce il principio di libertà di iniziativa economica. Più nello specifico, da un lato stabilisce tale principio di libertà e dall’altro esprime un limite alla libera espressione dello stesso, che di per sé rappresenta la necessità di una regolazione.
Ecco, sulla scia di questo concetto di “regolazione”, il legislatore pare abbia voluto agevolare i rapporti di lavoro, per tutelare meglio le imprese, i lavoratori e i loro contratti di lavoro: infatti se le parti sono desiderose di regolare e scalfire, volontariamente, taluni aspetti contrattuali, possono farlo tramite la Certificazione del contratto di lavoro.
Esso è un atto di natura amministrativa,istituito dalla legge Biagi (L. 276/2003) per snellire il contenzioso in materia lavoristica, prevedendo una qualificazione dei contratti di lavoro, e successivamente disciplinato dal Collegato Lavoro (L. 183/2010) che ha modificato la legge Biagi, estendendo la certificazione a qualsiasi tipo di contratto, da cui si desume direttamente o indirettamente un rapporto di lavoro.
La certificazione è una speciale procedura volontaria per entrambe le parti del contratto, le quali devono attuarla congiuntamente; esse infatti richiedono a determinate Commissioni, appositamente istituite, di certificare che il contratto rispetti i requisiti di legge previsti per quella determinata tipologia e dei contratti in generale e la volontà delle medesime.
La competenza spetta alle commissioni istituite ad iniziativa di enti bilaterali nell’ambito territoriale di riferimento o a livello nazionale, dall’Ispettorato territoriale del lavoro o dai consigli provinciali, dalle Università pubbliche e private e dalle Fondazioni universitarie, dai Consigli provinciali dei consulenti del lavoro. La Commissione deve verificare il contratto in seguito ad istanza redatta per iscritto e sottoscritta da entrambe le parti, dopo aver provveduto a dare la consulenza necessaria alle parti e deve emettere l’atto entro 30 giorni dalla presentazione del contratto da certificare.
Possono essere certificati: tutti i contratti di lavoro autonomo o subordinato; i contratti d’opera ai sensi dell’articolo 2222 del codice civile; i contratti di somministrazione; i contratti plurilaterali societari; i regolamenti di cooperative; il contratto d’appalto; le clausole compromissorie.
A seguito della procedura di certificazione, si possono produrre diversi effetti:
• civili, in quanto è un contratto di diritto comune tra le parti;
• amministrativi, perché per l’eventuale impugnazione si seguono le regole amministrative;
• previdenziali, in quanto produce effetti verso gli istituti previdenziali ed assistenziali;
• fiscali, poiché riguardano anche l’Agenzia delle entrate.
Tali effetti retroagiscono al momento di inizio del contratto se si certifica un rapporto in corso di esecuzione o, in caso contrario, nel momento in cui il contratto venga sottoscritto dalle parti e permangono finché non intervenga una sentenza passata in giudicato, anche se si vuole evitare il più possibile l’interferenza del giudice.
Sia le parti del contratto sia terzi nei cui confronti la certificazione produce effetti (ad esempio, INPS, INAIL) possono ricorrere contro un parere di certificazione, rivolgendosi al giudice amministrativo (T.A.R.) entro 60 giorni dall’emanazione dell’atto nel caso siano state violate norme sul procedimento o eccesso di potere, oppure al giudice ordinario entro 5 anni dalla fine del rapporto di lavoro. In caso di erronea qualificazione della commissione, difformità tra il programma negoziale e la sua effettiva attuazione o vizio del consenso; in questi ultimi casi è necessario che vi sia però un preventivo tentativo di conciliazione obbligatoria.
La certificazione può essere usata anche in casi particolari, quali: il patto di demansionamento del dipendente; il licenziamento disciplinare; le dimissioni online e le risoluzioni consensuali; la genuinità dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.).